Ciao, sono Barbara e sono donna di lettere con la passione per le storie.
Cosa significa?
Ti racconto questa
Avrò avuto quattro anni e non sapevo ancora leggere, ma seduta sul balcone raccontavo storie al figlio dei vicini. Lo facevo guardando i fumetti di Topolino, interpretandone le scene, le espressioni dei personaggi, le loro azioni. Guardavo un po’ più avanti nello storyboard per trovare a ritroso un senso alle figure disegnate. Creavo storie usando la fantasia e lo spirito di osservazione. Nessuno me l’aveva insegnato, né ero stata sollecitata. Mi veniva spontaneo farlo, come quelle attitudini innate che si sviluppano anche se non coltivate. Una vocazione che nel tempo è diventata un fil rouge capace di legare azioni all’apparenza svincolate. Di unire scelte giudicate scomposte, perché estranee a un percorso rigido e lineare come vorrebbe la società.
Volevo fare la giornalista
Era la fine degli anni ’70 o forse l’inizio degli ’80 quando, tra un cartone animato giapponese e l’altro, ascoltavo i resoconti sul terrorismo, i sequestri di persona, gli omicidi a qualsiasi sfondo riportati sui giornali e dai tigì. Fatti che riconducevano alla storia del nostro Paese e che erano al tempo stesso privati, con le loro complessità e sfaccettature. Avevo maturato l’idea che da grande avrei intrapreso la professione giornalistica e crescendo mi sono appassionata al reportage, il cui ampio respiro consente di fare un’indagine, avere una panoramica e mettere in primo piano le correlazioni di causa-effetto, le persone, i luoghi, le azioni e le emozioni. Documentando i fatti e insieme la storia.
La scelta universitaria si è basata su un’intuizione, ovvero che l’atto di narrare fosse anche comunicare. E che la comunicazione fosse importante per creare conoscenza e diffondere le idee. Perciò l’iscrizione a Lettere Moderne, con Tecniche della Comunicazione come curriculum. Nei primi anni ’90 eravamo dei pionieri della materia tra i corridoi di Palazzo Nuovo e il percorso professionale che è seguito dopo quattro anni di studi e la tesi di laurea in sociologia si è mosso tra ciò che il mondo del lavoro offriva e quanto siamo riusciti a creare mettendoci in gioco, assecondando il progresso.
Sono stata fortunata
Dopo due stage nella comunicazione interna occupandomi di house organ aziendali, sono entrata nel mondo della pubblicità. Con il ruolo di account executive ho lavorato per una decina d’anni in agenzie di medie dimensioni. I clienti erano nazionali e facevano pubblicità sui giornali e alla radio. Ogni tanto anche in tivù. Aziende che usavano il below the line, ossia cataloghi, folder, espositori per punti vendita, packaging, come strumento di marketing e comunicazione.
Ricoprivo il ruolo di collegamento tra il cliente e l’agenzia. È stata una palestra entusiasmante, anche se non sempre facile. Di sicuro poco vicina all’idea romanzata che si vede nei film. Sono stati anni in cui ho imparato un mestiere sotto la guida di persone e professionisti generosi anche quando i rapporti sono stati difficili. Lavorare in agenzie di pubblicità e comunicazione ha permesso alla mia parte organizzativa di strutturarsi in modo pragmatico e non rigido; e a quella creativa di ragionare in modo strategico. Anche oggi, l’una senza l’altra mi porterebbe da nessuna parte.
Dall’altra parte della scrivania
Mi piaceva lavorare in agenzia, ma ero giovane, ambiziosa e col desiderio di vivere le aziende dall’altra parte della scrivania. Perché da fuori la storia si racconta, ma da dentro la si costruisce. Così sono entrata in imprese multinazionali di settori merceologici diversi, occupandomi di marketing, comunicazione e anche di eventi inter/nazionali.
Un ruolo meno creativo e più organizzativo con cui ho dato risposte alle domande sui tempi, i modi, i ragionamenti complessi che portano le aziende a certe decisioni invece di altre. E anche se ogni realtà è fatta a modo proprio, con la sua struttura e le dinamiche tanto umane quanto professionali, vi sono alcuni denominatori ad accomunarle. Fattori dai quali sono partita per ampliare la mia conoscenza e dare un contributo col bagaglio di esperienze pregresse.
La fotografia che c’azzecca?
Avevo nove anni quando mio papà ha portato a casa una reflex. Analogica ovviamente. Per me è stata una meraviglia, in sostituzione della compatta di famiglia che faceva le foto quadrate. L’amore per la fotografia è nato lì, mentre tenevo in mano quello strumento pesante e solido; mentre mio papà mi insegnava a posizionare il rullino, inquadrare e scattare. Tutto molto basico, ma ogni cosa inizia da un primo passo.
Ne ero stata talmente folgorata che alle scuole medie frequentai un corso di camera oscura. Ricordo come una magia l’apparizione delle immagini sulla carta dopo il processo di sviluppo. E che ciò accadesse alla sola presenza di una luce rossa era prodigioso. Fotografare, ovvero scrivere con la luce, aveva bisogno del buio per mostrare al mondo il proprio risultato.
A un compleanno mi regalarono una Yashica rossa, sempre analogica, che tutt’ora conservo. Giravo con lei e un paio di rullini nello zainetto, per immortalare le feste, le gite, le vacanze. Per fissare il ricordo nel tempo, per non perdere traccia della storia, per comporre un mosaico narrativo, i cui tasselli erano i fatti della mia vita. Ho scatole e album con le immagini delle persone incontrate e poi perdute, dei luoghi visitati, dei sorrisi, delle candeline soffiate sulle torte, dello spacchettamento di regali, dei dettagli che riprendevo con parsimonia perché lo sviluppo fotografico aveva un costo.
Ho sempre portato con me anche penna e taccuino per dare completezza a quanto vivevo, scrivere le domande e le curiosità, fare la cronaca dei fatti su cui viene costruita ogni storia. Macchina fotografica, penna e quaderno sono i miei inseparabili compagni di vita da sempre, a maggior ragione da quando, all’alba dei miei primi quarant’anni, ho scelto di diventare una libera professionista.
L’anno zero
Con i se e con i ma non si fa la storia. La storia si fa partendo dai fatti. Ed è stata la loro personale insostenibilità a farmi scegliere di diventare imprenditrice di me stessa. Mi volto indietro e guardo quel giorno del 2010 in cui diedi le dimissioni, rinunciando a un lauto stipendio, a benefit, a uno status sociale e a notti di veglia divorata dall’ansia. Mi volto indietro e questi anni sono stati vorticosi per il mondo, la società e pure per me.
Nel primo periodo di libera professione mi sono occupata di viaggi, una delle mie passioni. Esploro il mondo da quando ho vent’anni, quasi sempre con lo zaino in spalla, tanta programmazione e quel giusto di avventura. Ho iniziato con un blog per passare agli articoli e reportage di viaggio, utilizzando le fotografie del mio archivio e rimpolpandolo con nuovo materiale e altrettante esperienze. In quell’epoca sono nate le collaborazioni con testate giornalistiche e blog di settore, alcune delle quali tutt’ora attive.
Poi ho iniziato a fotografare il tango, una passione che ballavo. E da lì sono passata a fotografare il flamenco, scoprendone la passionalità emotiva dietro l’intensità dei movimenti. Una grande scuola la fotografia di ballo e danza perché mi obbligava a ragionare d’anticipo sui movimenti quando lavoravo per gli spettacoli; a cogliere i momenti importanti, che scivolerebbero via senza memoria, quando mi dedicavo a documentare gli amati backstage.
Così, mentre da una parte cominciavo a occuparmi di fotografia legata al business di piccoli brand e abbozzavo il discorso dello storytelling, dall’altra le persone mi chiedevano i classici servizi fotografici, dai matrimoni ai ritratti di famiglia.
Del mondo della fotografia ho esplorato quanto mi interessava approfondire, mettendoci sempre entusiasmo. Qualcuno ricorderà il progetto creativo “Mini car & the big food” esposto a Mirafiori Motor Village in occasione di Expo 2015. Avevo ambientato un piccolissimo modellino di FIAT 500 tra frutta e verdura di stagione a comporre degli still life moderni e ironici, che giocavano con le forme e la metafora.
Più conosciuto è invece il progetto di fotografia e storytelling “Donne di Torino”, dove ho unito le storie delle donne ai loro volti. Un grande patrimonio raccolto grazie alle centinaia donne incontrate che mi hanno svelato ciascuna qualcosa sulla femminilità e permesso di far nascere il servizio fotografico Ritratti di Charme. Ma anche l’opzione “business” del progetto Donne di Torino: un diverticolo dove il personal branding torna padrone, raccogliendo le storie professionali delle partecipanti e restituendone l’essenza in un unico scatto.
Sto diventando grande
I Righeira continuavano la loro canzone con “lo sai che non mi va”. Invece ne sono contenta. In prossimità della mezza età ho la certezza che non smetterò mai di imparare ma sono consapevole di avere l’esperienza per dare un’unica direzione alle scelte passate. Tengo indossati i panni di fotografa, perché trovo che le immagini siano un potente mezzo per rappresentare la realtà e raccontare storie. Ma vesto anche quelli della consulente di comunicazione. Del resto, in questi anni, ogni volta che un cliente imprenditore si è rivolto a me per un servizio fotografico, ho dato il mio punto di vista e qualche indicazione strategica laddove ve ne fosse bisogno. Delle intuizioni da sviluppare; dei punti di partenza da approfondire.
Ora ho semplicemente deciso di far convogliare l’esperienza, dalla comunicazione allo storytelling fotografico, in un’unica direzione. Al servizio di piccole imprese e di liberi professionisti che hanno una storia da raccontare, il desiderio di valorizzarsi, la voglia di emergere e differenziarsi dagli altri. Perché il mio mantra, lo ripeto sempre, è: a parità di professione non esistono due professionisti uguali. Sono la storia, i valori, l’esperienza, l’empatia a fare la differenza e vanno raccontati con cognizione e perizia. Le storie diffondono conoscenza e perciò mi rivolgo a quanti sono coscienti del loro patrimonio e vogliono affidarsi a un’unica referente che realizzi i servizi fotografici, ma soprattutto su cui far riferimento come consulente di comunicazione integrata.
Fin qui la storia è scritta. Ciò che sarà d’ora in poi si baserà sui fatti che nasceranno dalle collaborazioni, dai rapporti umani e da quelli professionali. Una storia scritta da più mani. La mia e la tua.
Lavoriamo insieme.
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Sarò felice di conoscere chi sei, cosa fai
e, soprattutto, perché lo fai.
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